L'origine dell'omosessualità

Psicologo Psicoterapeuta e Sessuologo a Cagliari, San Gavino Monreale, Sanluri e Online

Si definiscono “scienze della SALUTE mentale”, la psichiatria, la psicologia e la psicanalisi, ma quando si considerano alcune teorie, riflessioni, assunti del passato si troverà che il concetto di salute è stato interpretato spesso in maniera, oserei dire, originale.

La scienza, la vera scienza, cioè il genuino tentativo di cercare la verità delle cose, serve ad attenuare la sete di conoscenza così caratteristica dell’essere umano.

La falsa scienza, la pseudoscienza, è invece posta al servizio dell’altra “grande sete” dell’uomo: il potere.

Il potere bastonava, mutilava, imprigionava, talvolta bruciava al rogo gli omosessuali o li rinchiudeva; le (pseudo)scienze della salute mentale non si preoccupavano di discutere l’assunto di partenza, e cioè che l’omosessualità fosse una “diversità” che a seconda dei casi diventava perversione, peccato o entrambe, e trascorse molto tempo tentando semplicemente di spiegare l’origine dell’inversione, attuando quello che Szasz (1974) ha definito passaggio dallo stato religioso allo stato terapeutico.

LE PRIME TEORIE INNATISTICHE: generalmente queste teorie, data anche l’ignoranza nel campo della genetica, si concentrano su difetti a carico del Sistema Nervoso Periferico, dell’embrione o del Sistema Nervoso Centrale. Pur ancora rudimentali e centrate sull’aspetto patologico, hanno avuto il merito di cogliere la dimensione innata ormai accettata da molti come essenziale per comprendere l’omosessualità.

LE PRIME TEORIE PSICOLOGICHE: le prime teorie psicologiche si basano su una visione dell’omosessualità piuttosto ristretta e confusa: parlare di “inversione sessuale” come fa Westphal (1870) ben esprime la visione di un omosessuale maschio che è psicologicamente e fisicamente effeminato e di una donna virile, affetta addirittura da ipertrofia clitoridea (Lombroso, 1885; Moraglia, 1895).

Ma tanta faticosa attenzione al tema non poteva limitarsi certo alla sola ricerca delle cause. Sono “scienze della salute mentale” e giustamente si impegnarono sin da subito per riportare gay e lesbiche nell’orbita di una “sanissima salute”: Charcot e Magnan (1882) proponevano l’uso del bromuro, Schrenck Notzing (1892) l’ipnosi e la suggestione, Lombroso (1885) la cauterizzazione del clitoride, Westphal (1870) e Cantarano (1883) si limitarono a proporre il contenimento in manicomio.

IL ‘900 - E POI ARRIVO’ FREUD: Per Freud tutto dipende dalla libido e dal suo destino, attraverso le vicende edipiche e pre-edipiche, che orienta la scelta dell’oggetto (Freud, 1905). Alla base ci sarebbe una bisessualità, tipica di tutti gli esseri umani: quello che accade nel normale sviluppo-eterosessuale è che la parte omosessuale viene rimossa e sublimata in manifestazioni come l’amicizia e il cameratismo e tutte quelle situazioni sociali che regolano le interazioni tra uomini. In questo senso, Freud è contrario alla teorizzazione di un “terzo sesso”, come proponevano i primi movimenti omosessuali, ma rispetto a molti suoi seguaci, contemporanei e poi successivi, ha una visione meno drastica dell’omosessualità. E’ favorevole alla depenalizzazione dell’omosessualità, si schiera contro Jones quando questi voleva escludere gli omosessuali dalla Società Psicanalitica, si rifiuta di curare gli omosessuali per il loro orientamento sessuale (Freud, 1919).

Scriverà, infatti:

<<Caro Ernst […] non siamo d’accordo con lei […]. Non possiamo escludere tali persone senza avere sufficienti ragioni di altro tipo […]. Ci sembra che in simili casi una decisione dovrebbe dipendere da un esame accurato delle altre qualità del candidato>>

(Freud, 1921, cit. in Bayer, 1981, p. 22)

L’APA (American Psychoanalytic Association), purtroppo,  impiegherà più di 70 anni per accogliere l’antico invito di Freud a non tener fuori gay e lesbiche dal training psicanalitico solo per il loro orientamento sessuale.

Analizzando l’omosessualità maschile e femminile, Freud dà diverso peso alla componente costituzionale e alla componente psichica:

Per l’omosessualità maschile Freud dà maggiore peso all’aspetto dell’inibizione dello sviluppo psicosessuale: l’omosessuale, infatti, non avrebbe un rifiuto della donna nella sua totalità, ma solo per la sua zona genitale, che viene vissuta come castrante. Ricercando la relazione con un altro uomo, l’omosessuale cerca rassicurazioni riguardo l’esistenza del pene per difendersi dalle fantasie di castrazione.

Per l’omosessualità femminile, Freud, rispetto a quella maschile, considera più preponderante un fattore costituzionale che predispone congenitamente a una maggiore vulnerabilità di fronte alla delusione paterna, per cui alla disillusione segue una regressione al precedente complesso di mascolinità.

L’eclettismo teorico di Freud, comunque, lo ha portato a formulare varie ipotesi sull’eziologia dell’omosessualità, che possono essere così riassunte:

- Una scelta oggettuale narcisistica, per cui a causa dell’intensa identificazione con la madre, e per preservare questa relazione, il bambino sceglie se stesso come oggetto d’amore e ricercherà giovani uomini simili a sé perché lo amino allo stesso modo in cui lo ha amato la madre (Freud, 1905).

- Una forte fissazione alla figura della madre e la successiva identificazione con lei, conseguente anche all’assenza di una figura paterna forte (Freud, 1910).

- Mancata risoluzione del Complesso di Edipo, per cui l’omosessualità sarebbe il risultato di un’eccessiva angoscia di castrazione (Freud, 1920).

- Un complesso edipico negativo, per cui la ragazza desidera il padre e vuole avere un figlio da lui, ma è delusa dalla gravidanza della madre. Per questa ragione, volta le spalle al padre, rinuncia alla propria femminilità e sceglie la madre come oggetto d’amore (Freud, 1920).

 

Questo stesso atteggiamento eclettico, critico e, in fondo, intellettualmente onesto, espone Freud all’antipatica pratica del saccheggio teorico: con qualche forzatura qui e lì, è possibile mettere il padre della psicanalisi al servizio ora delle teorie riparative come fa Nicolosi (1991) ora al servizio di scritti “pro-gay”, come fa McWilliams (1996).

Quello che in realtà, io credo si possa dire di Freud è che la sua posizione resta alquanto ambivalente, ma per un uomo del suo tempo, straordinariamente umana.

Già nel 1905 (Freud, 1905), sosteneva che l’inversione non faceva necessariamente parte di un complesso quadro patologico, ma poteva trovarsi in persone che <<altrimenti non rivelano gravi deviazioni dalla norma>> (Freud, 1905). Nella famosa “Lettera a una madre americana” (Jones, 1953), Freud risponde a una signora che gli chiedeva se la psicanalisi avrebbe potuto cambiare l’orientamento del figlio e scrive:

 << L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale >>.

Freud era anche pessimista (o meglio realista) riguardo la possibilità di cambiare l’orientamento sessuale di un individuo, in quanto questo processo aveva le stesse probabilità di riuscita del suo opposto e, comunque, riteneva che tale impresa non riguardasse gli obiettivi della psicanalisi (Freud, 1920).

SACCHEGGIANDO FREUD: Molte teorie che si rifanno alla psicanalisi basano le loro riflessioni sul medesimo punto di partenza: la paura/fobia per l’organo del sesso opposto. I maschi temono la castrazione della “vagina dentata” (Ovesey, 1965; Fenichel, 1945), le donne la violazione del proprio corpo da parte del pene (Fenichel, 1945). Nel filone post-freudiano si innestano alcuni autori che rifiutano la bisessualità costitutiva di Freud e spingono all’eccesso la visione patologica dell’omosessualità, che viene interpretata come una condizione regressiva che può essere in molti casa curata.

GLI ANNI ’50 - E POI ARRIVO’ IL DSM: Il DSM è un manuale descrittivo, che ha varie versioni e ha subito varie revisioni (è prossima l’uscita del DSM-V), utile per la ricerca, perché ha creato un linguaggio comune e utile al sistema sanitario americano e alle sue assicurazioni...

Ecco come nelle varie edizioni del DSM è stata definita l’omosessualità:

DSM-I (1952): disturbo sociopatico della personalità, in quanto presupponeva la volontà dell’omosessuale di opporsi alla società e alle tradizioni morali.

DSM-II (1968): deviazione sessuale, insieme alle perversioni (pedofilia, necrofilia, feticismo, vouyerismo, travestitismo, transessualismo).

DSM-III (1974): non è più una patologia, ma resta contemplata l’omosessualità “egodistonica”, cioè quella <<non in armonia con la struttura della psiche>>.

DSM-III (Revisione del 1987): l’omosessualità egodistonica viene derubricata e si parla soltanto di un disturbo legato all’interiorizzazione dell’ostilità sociale.

DSM-IV (1994): la situazione resta quella dell’edizione precedente.

 

La banale elencazione, però, non rende affatto l’idea di quanto questo processo sia stato irto di conflitti e di come, tuttora, il modo in cui è avvenuta questa fuoriuscita dalla “patologia ufficiale” sia origine di polemiche, soprattutto da parte di chi questa fuoriuscita non l’ha proprio digerita.

L’obiezione fondamentale posta di fronte all’eliminazione dell’omosessualità dal DSM, infatti, riguarda il modo in cui essa è avvenuta: una votazione. E’ scandaloso, sarà davvero per la pressione della lobby-gay all’interno dell’APA che l’omosessualità è stata esclusa dalla patologia!

Oppure no?

Studi che mostravano che l’omosessualità non funziona in modi peculiarmente patologici rispetto alla eterosessualità risalgono a ben prima dell’affermazione dei movimenti a favore del riconoscimento dei diritti omosessuali negli Stati Uniti.

E’ del 1957, infatti, lo studio di Evelyn Hooker.

 

A gruppi di soggetti omosessuali ed eterosessuali fu somministrata una batteria di test proiettivi, per stabilire se ci fossero nel profondo del funzionamento psichico tracce di tutte le drammatiche vicissitudini psichiche che erano state fin qui teorizzate per l’omosessualità. L’insieme dei protocolli fu sottoposto a un gruppo di esperti, tenuto all’oscuro dell’orientamento sessuale del compilatore. Gli esperti non seppero distinguere i protocolli compilati dai soggetti omosessuali da quelli eterosessuali.

Hooker poté così concludere che l’omosessualità, così come l’eterosessualità, non è una condizione omogenea e, inoltre, non è intrinsecamente legata alla psicopatologia (Hooker, 1957). Sono all’incirca degli stessi anni le ricerche della scuola sessuologia americana, che contribuirono anch’esse alla definizione dell’omosessualità come variante non-patologica della sessualità umana (Kinsey, 1948, 1953; Master e Johnson, 1979).

Attraverso le sue interviste, Kinsey poté stimare che il 37% della popolazione maschile e il 13% di quella femminile aveva avuto esperienze omosessuali durante il proprio arco di vita. Questa percentuali lo convinsero che ormai non era più possibile considerare l’omosessualità un fenomeno contro-natura e pure che era necessario uscire dalla ristretta dicotomia etero-omo e arrivò a ipotizzare un continuum che da un “assoluto grado” di eterosessualità, attraverso vari livelli intermedi, arriva a un “assoluto grado di omosessualità”.

Le ricerche di Master e Johnson (1979), invece, mostrarono che il funzionamento e la risposta sessuale di omosessuali ed eterosessuali erano identici e che quindi non c’era alcuna differenza nel modo in cui all’interno di questi due orientamenti possono svilupparsi disfunzioni sessuali.

A questi studi ne seguirono altri che hanno confermato, su larghi campioni e attraverso vari strumenti, fra cui il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), il 16 Personality Factor Questionnaire (16PF), l’Eisenk Personality Inventory (EPI), che l’incidenza di disturbi psicologici e psichiatrici nella popolazione omosessuale rispetto a quella eterosessuale era praticamente identica.

Marmor (1973) sostiene che la costellazione familiare fino a quel momento accusata di essere la causa principale alla base dell’omosessualità, in realtà non è affatto predittiva dell’orientamento sessuale del figlio, in quanto essa può determinare tanto l’omosessualità quanto l’eterosessualità.

Queste ricerche permettono, ormai, il rovesciamento dell’assetto mantenuto fino a quel momento: l’eterosessualità non è più normativa e ora ad essere messo in discussione è proprio il punto di osservazione da cui si valuta l’omosessualità, arrivando così a rintracciare certe curiose interpretazioni circolari, per cui, ad esempio, l’omosessualità è patologica perché si sviluppa all’interno di relazioni familiari patologiche, le quali, però, sono patologiche proprio perché generano l’omosessualità dei figli (Bell e Weinberg, 1978).

 

Quando, nel dicembre del 1973, i tredici componenti dell’APA decisero di rimuovere l’omosessualità egosintonica dal DSM, in quanto

 <<l’omosessualità in sé non implica più un deterioramento nel giudizio, nell’adattamento, nel valore o nelle generali abilità sociali o motivazionali di un individuo>>

alle spalle avevano qualcosa di un po’ più serio e concreto di una presunta lobby gay. E chi critica il modo in cui fu definitivamente sancita la decisione, dovrebbe ricordare chi furono i due famosi psicanalisti che proposero l’inusuale forma del referendum: Charles Socarides e Irving Bieber, due accesi sostenitori della visione patologica dell’omosessualità. Il 55% degli iscritti all’APA si pronunciò a favore della commissione e nel DSM-III del 1974 l’unica “versione” dell’omosessualità a essere considerata patologica è quella “egodistonica”, che includeva due criteri diagnostici:

 - L’individuo lamenta che il suo eccitamento eterosessuale è persistentemente assente e ciò interferisce con il suo desiderio di iniziare o mantenere relazioni eterosessuali.

- Esiste una consistente configurazione di eccitamento omosessuale che l’individuo esplicitamente definisce come indesiderata e come persistente fonte di stress.

 

Tredici anni dopo, nella revisione DSM-III-R viene eliminata anche questa categoria di omosessualità, in quanto

 <<tale categoria diagnostica poteva far pensare all’omosessualità come a qualcosa di patologico in sé>>

e questa posizione è rimasta invariata nel DSM-IV del 1994. 

DAL MODELLO PATOLOGICO AL MODELLO AFFERMATIVO: Dopo la “de-patologizzazione” dell’omosessualità, molti psicologi cominciarono a considerare piuttosto inutile interrogarsi sulle presunte cause e molto più utile dedicarsi alle tematiche della vita gay e lesbica. L’interesse ora è concentrato non più sulla presunta origine della pulsione omosessuale, ma sulla qualità delle relazioni che le persone instaurano.

Isay(1989) considera l’omosessualità costituzionale allo stesso modo dell’eterosessualità; quello su cui l’ambiente può davvero influire è l’espressione della sessualità, non l’orientamento sessuale. Ciò che accade è che il bambino prova un’attrazione erotica per il padre e per essere ricambiato cerca di essere più simile alla madre, che è amata dal padre: questa identificazione può protrarsi fino all’età adulta ed essere alla base dell’omosessualità maschile e attivare una sorta di circolo vizioso per cui da una parte la società etichetta l’omosessuale come poco virile, influenzando quindi la sua autopercezione e l’omosessuale stesso, in funzione della sua identificazione materna, è, effettivamente, meno aggressivo e più sensibile. A questo vissuto di “diversità-estraneità” può aggiungersi la reazione del padre che, accorgendosi delle richieste del figlio, può allontanarlo: da qui, secondo Isay, nascono molti dei racconti di omosessuali che riferiscono di padri ostili, freddi e distaccati.

Roughton(2001, 2002a) sottolinea come sia doveroso affrontare la psicopatologia di un paziente e la sua omosessualità come due dimensioni assolutamente indipendenti, ponendo semmai attenzione al senso di diversità e omofobia che il soggetto può avere interiorizzato e che incidono sulla qualità della su salute psichica.

 

Il modello affermativo, quindi, ribalta lo status degli esiti dello sviluppo psicosessuale: elimina la dicotomia fra subalterno e normativo , tra naturale e innaturale e propone un modello che ha come risultato soluzioni diversificate, con percorsi e orientamenti alternativi. Non è nemmeno più possibile palare di una omosessualità, così come non è possibile parlare di una eterosessualità: la popolazione gay-lesbica raccoglie un insieme eterogeneo di persone diverse per età, classe sociale, famiglie di provenienza, orientamenti politici, stili di vita, percorsi di vita, ecc…

Come detto, varie ricerche nel corso del tempo hanno dimostrato che non ci sono sostanziali differenze nell’incidenza psicopatologica negli omosessuali; quello che comincia, adesso, a essere riconosciuto è l’effetto che può avere sugli individui il clima di riprovazione sociale, che può effettivamente portare allo sviluppo di problematiche di carattere psicologico. Parin (1985) sostiene che i gay possono essere paragonati ad altri gruppi oppressi, come gli ebrei, in quanto la discriminazione può portare agli stessi effetti psicologici: i disturbi psicologici che gli omosessuali possono eventualmente manifestare, non appartengono esclusivamente alla loro struttura di personalità, ma possono piuttosto essere il risultato dello svantaggio sociale. Meyer (1995) considera la condizione di gay e lesbiche più invalidante rispetto a quella vissuta da altre minoranze (razziali, etniche, religiose, ecc…), in quanto gli omosessuali, vivendo spesso in condizioni di invisibilità, non possono usufruire delle strategie difensive cui possono accedere le minoranze di altri gruppi per far fronte allo “stress da minoranza”, come trovare supporto sociale in famiglia.

Per questi motivi, la psicoterapia con gay e lesbiche non ha l’obiettivo di modificare l’orientamento sessuale, ma piuttosto di integrare le varie componenti della sessualità per facilitare l’acquisizione di strumenti per fronteggiare al meglio il pregiudizio esterno e quello interno (Del Favero e Palomba, 1996; Montano, 1997).

Nel 2000, l’APA si è espressa a favore del riconoscimento delle unioni civili e specifica come questa posizione non abbia niente di politico, ma riguardi un intervento doveroso per la tutela della salute psichica degli omosessuali, che, come qualunque altro cittadino, devono poter beneficiare dei medesimi diritti e dei medesimi vantaggi cognitivo-affettivi derivanti dalla stabilità e dal riconoscimento delle relazioni omosessuali.

E’ il Nuovo Millennio, ma finalmente un vero intervento per la salute psichica!

 

Per approfondire

Freud S., (1905) <<Tre saggi sulla teoria sessuale. La vita sessuale>>, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1970, vol. 4

Freud S., (1920) <<Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile>>, tr. it. in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, vol. 9

Freud S., (1921) <<Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, nella paranoia e nell’omosessualità>>, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1977, vol. 9

Freud S., (1932) <<Introduzione alla psicanalisi (nuova serie di lezioni)>>, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, vol.11

Isay R.A., (1989) <<Essere omosessuali. Omosessualità maschile e sviluppo psichico>>, Milano, Raffaello Cortina, 1996


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